di Sergio Cararo
Chiunque disponga di un minimo di buonsenso o si sia preso la briga di leggere gli appelli per il “boicottaggio” della Fiera del Libro di Torino, non avrebbe tardato a capire che al centro del conflitto non sono gli scrittori israeliani né i loro libri. Chi, al contrario, ha concentrato su questo aspetto polemiche e dibattito, lo ha fatto in perfetta malafede o con grande superficialità. La dinamica della discussione e dei conseguenti anatemi, somiglia molto a quella messa in campo in relazione alla contestazione per l’intrusione “culturale” del Pontefice all’Università di Roma.
1. Innanzitutto ci sembra che la campagna di “boicottaggio” abbia prodotto un primo risultato. L’ambasciata e le autorità di Israele, non potranno utilizzare la Fiera del Libro come propria vetrina politica in occasione del sessantesimo della nascita del loro Stato senza che ciò produca opposizione e resistenza evidente anche all’opinione pubblica. Una parte dell’operazione - tutta politica - messa in campo per l’edizione della Fiera di quest’anno, è stata pubblicamente svelata e compromessa dall’azione pacifica ma determinata delle reti, associazioni, organizzazioni, centri sociali, intellettuali che non hanno abdicato alla solidarietà verso il popolo palestinese. Una prima verifica su questo la faremo all’indomani della prima manifestazione già convocata per il 29 marzo a Torino. Una seconda la faremo nella settimana di mobilitazione prevista in contemporanea con la Fiera stessa e che culminerà il 10 maggio con una nuova manifestazione nazionale a Torino.
Sarà in quei giorni che verificheremo concretamente se la Fiera del Libro tornerà alla sua dimensione naturale di incontro, marketing, scambi editoriali e culturali oppure sarà occupata politicamente e materialmente dagli apparati ideologici di stato (per dirla con Althusser) di Israele.
2. In secondo luogo, il dibattito sul “boicottaggio” nel nostro paese avviene in una sorta di vuoto pneumatico in cui i soggetti e l’oggetto del boicottaggio scompaiono insieme alla storia, ai processi reali, agli obiettivi e ai risultati delle azioni concrete.
Il ragionamento è semplice. I governi che si sono succeduti nello Stato di Israele in questi sessanta anni dalla sua nascita, hanno impedito materialmente e politicamente che nascesse lo Stato Palestinese. I fatti e le responsabilità sono evidenti a tutti. La Palestina come Stato non è potuta nascere perché un altro Stato (Israele) glielo ha impedito militarmente, economicamente e politicamente (con quel politicidio richiamato opportunamente da Kimmerling), dando vita ad una relazione di tipo classicamente coloniale tra Israele e i palestinesi dei Territori Occupati tuttora vigente ed anzi diventata ancora più brutale.
Dedicare a Israele per i sessanta anni dalla sua nascita un evento ufficiale come la Fiera del Libro di Torino, assumeva in sé come legittima questa vulnerazione della storia, del diritto internazionale e del diritto dei popoli, in modo specifico quello palestinese. Se questo dubbio o questa sensibilità, avesse sfiorato le istituzioni che animano la Fiera del Libro non si sarebbe arrivati a questa situazione. Né può essere accettabile a posteriori che gli scrittori o la cultura palestinese siano ammessi ancora una volta dalla “porta di servizio” ad un evento che celebra i sessanta anni dello Stato che ha negato ai palestinesi la terra, la libertà, l’identità, la dignità, l’indipendenza.
3. Infine, ma non per importanza, il boicottaggio nasce come sanzioni dal basso da parte della società civile di fronte all’inerzia o alla complicità dei governi e delle istituzioni internazionali predisposte per attuare sanzioni verso uno Stato che violi la legalità e i diritti umani e dei popoli.
Noi non abbiamo gli strumenti o la possibilità di far revocare l’accordo di cooperazione militare tra Italia e Israele siglato dal governo Berlusconi ma tuttora vigente, né possiamo far revocare le collaborazioni nel campo delle alte tecnologie tra Regione Lazio e Israele, né di far revocare i finanziamenti per le cure ai bambini palestinesi assegnati però alle strutture israeliane e non agli ospedali palestinesi dalla Regione Toscana. Tantomeno abbiamo la possibilità di mettere fine al vergognoso paradosso, per cui le uniche sanzioni internazionali adottate fino ad oggi sono state adottate non contro Israele ma contro la popolazione palestinese di Gaza già in emergenza umanitaria ancora prima dell’embargo adottato dall’Unione Europea (e dall’Italia).
4. Dunque se qualcuno – anche nella sinistra – ha paura delle parole, possiamo chiamare da oggi in poi il boicottaggio sanzionaggio. La forma sarebbe più rassicurante per alcuni, ma la sostanza e gli obiettivi rimangono i medesimi: ottenere attraverso una pressione internazionale crescente un cambiamento della politica di uno Stato e dei suoi governi nei confronti di una popolazione sottoposta a insostenibili violazioni dei propri diritti. Con il Sudafrica dell’apartheid questo modello ha ottenuto dei risultati decisivi. Nel 1989 – con Mandela ancora in carcere e il movimento antiapartheid reduce da una sconfitta dolorosa – nessuno di noi avrebbe immaginato che nel 1994 Nelson Mandela sarebbe diventato presidente del Sudafrica. Non solo, ma nessuno ha mai chiesto a Mandela e ai movimenti che nel proprio paese e nel mondo lo sostenevano di dare vita a due Stati: uno per i bianchi ed uno per i neri. Perché mai oggi dovremmo arretrare anche sulla prospettiva niente affatto utopica dello Stato unico per israeliani e palestinesi, uno stato laico, democratico, multireligioso? Anche su questo il dibattito si è finalmente riaperto. Chissà se si riuscirà a discuterne anche dentro e fuori la Fiera del Libro di Torino nei prossimi mesi. Vista così, la campagna di “boicottaggio” ha avuto il merito di porre al centro dell’agenda politica questioni decisive che erano state pesantemente rimosse anche nel nostro paese, anche dalla sinistra nel nostro paese.
Chiunque disponga di un minimo di buonsenso o si sia preso la briga di leggere gli appelli per il “boicottaggio” della Fiera del Libro di Torino, non avrebbe tardato a capire che al centro del conflitto non sono gli scrittori israeliani né i loro libri. Chi, al contrario, ha concentrato su questo aspetto polemiche e dibattito, lo ha fatto in perfetta malafede o con grande superficialità. La dinamica della discussione e dei conseguenti anatemi, somiglia molto a quella messa in campo in relazione alla contestazione per l’intrusione “culturale” del Pontefice all’Università di Roma.
1. Innanzitutto ci sembra che la campagna di “boicottaggio” abbia prodotto un primo risultato. L’ambasciata e le autorità di Israele, non potranno utilizzare la Fiera del Libro come propria vetrina politica in occasione del sessantesimo della nascita del loro Stato senza che ciò produca opposizione e resistenza evidente anche all’opinione pubblica. Una parte dell’operazione - tutta politica - messa in campo per l’edizione della Fiera di quest’anno, è stata pubblicamente svelata e compromessa dall’azione pacifica ma determinata delle reti, associazioni, organizzazioni, centri sociali, intellettuali che non hanno abdicato alla solidarietà verso il popolo palestinese. Una prima verifica su questo la faremo all’indomani della prima manifestazione già convocata per il 29 marzo a Torino. Una seconda la faremo nella settimana di mobilitazione prevista in contemporanea con la Fiera stessa e che culminerà il 10 maggio con una nuova manifestazione nazionale a Torino.
Sarà in quei giorni che verificheremo concretamente se la Fiera del Libro tornerà alla sua dimensione naturale di incontro, marketing, scambi editoriali e culturali oppure sarà occupata politicamente e materialmente dagli apparati ideologici di stato (per dirla con Althusser) di Israele.
2. In secondo luogo, il dibattito sul “boicottaggio” nel nostro paese avviene in una sorta di vuoto pneumatico in cui i soggetti e l’oggetto del boicottaggio scompaiono insieme alla storia, ai processi reali, agli obiettivi e ai risultati delle azioni concrete.
Il ragionamento è semplice. I governi che si sono succeduti nello Stato di Israele in questi sessanta anni dalla sua nascita, hanno impedito materialmente e politicamente che nascesse lo Stato Palestinese. I fatti e le responsabilità sono evidenti a tutti. La Palestina come Stato non è potuta nascere perché un altro Stato (Israele) glielo ha impedito militarmente, economicamente e politicamente (con quel politicidio richiamato opportunamente da Kimmerling), dando vita ad una relazione di tipo classicamente coloniale tra Israele e i palestinesi dei Territori Occupati tuttora vigente ed anzi diventata ancora più brutale.
Dedicare a Israele per i sessanta anni dalla sua nascita un evento ufficiale come la Fiera del Libro di Torino, assumeva in sé come legittima questa vulnerazione della storia, del diritto internazionale e del diritto dei popoli, in modo specifico quello palestinese. Se questo dubbio o questa sensibilità, avesse sfiorato le istituzioni che animano la Fiera del Libro non si sarebbe arrivati a questa situazione. Né può essere accettabile a posteriori che gli scrittori o la cultura palestinese siano ammessi ancora una volta dalla “porta di servizio” ad un evento che celebra i sessanta anni dello Stato che ha negato ai palestinesi la terra, la libertà, l’identità, la dignità, l’indipendenza.
3. Infine, ma non per importanza, il boicottaggio nasce come sanzioni dal basso da parte della società civile di fronte all’inerzia o alla complicità dei governi e delle istituzioni internazionali predisposte per attuare sanzioni verso uno Stato che violi la legalità e i diritti umani e dei popoli.
Noi non abbiamo gli strumenti o la possibilità di far revocare l’accordo di cooperazione militare tra Italia e Israele siglato dal governo Berlusconi ma tuttora vigente, né possiamo far revocare le collaborazioni nel campo delle alte tecnologie tra Regione Lazio e Israele, né di far revocare i finanziamenti per le cure ai bambini palestinesi assegnati però alle strutture israeliane e non agli ospedali palestinesi dalla Regione Toscana. Tantomeno abbiamo la possibilità di mettere fine al vergognoso paradosso, per cui le uniche sanzioni internazionali adottate fino ad oggi sono state adottate non contro Israele ma contro la popolazione palestinese di Gaza già in emergenza umanitaria ancora prima dell’embargo adottato dall’Unione Europea (e dall’Italia).
4. Dunque se qualcuno – anche nella sinistra – ha paura delle parole, possiamo chiamare da oggi in poi il boicottaggio sanzionaggio. La forma sarebbe più rassicurante per alcuni, ma la sostanza e gli obiettivi rimangono i medesimi: ottenere attraverso una pressione internazionale crescente un cambiamento della politica di uno Stato e dei suoi governi nei confronti di una popolazione sottoposta a insostenibili violazioni dei propri diritti. Con il Sudafrica dell’apartheid questo modello ha ottenuto dei risultati decisivi. Nel 1989 – con Mandela ancora in carcere e il movimento antiapartheid reduce da una sconfitta dolorosa – nessuno di noi avrebbe immaginato che nel 1994 Nelson Mandela sarebbe diventato presidente del Sudafrica. Non solo, ma nessuno ha mai chiesto a Mandela e ai movimenti che nel proprio paese e nel mondo lo sostenevano di dare vita a due Stati: uno per i bianchi ed uno per i neri. Perché mai oggi dovremmo arretrare anche sulla prospettiva niente affatto utopica dello Stato unico per israeliani e palestinesi, uno stato laico, democratico, multireligioso? Anche su questo il dibattito si è finalmente riaperto. Chissà se si riuscirà a discuterne anche dentro e fuori la Fiera del Libro di Torino nei prossimi mesi. Vista così, la campagna di “boicottaggio” ha avuto il merito di porre al centro dell’agenda politica questioni decisive che erano state pesantemente rimosse anche nel nostro paese, anche dalla sinistra nel nostro paese.